Foresta Demaniale Porto Conte (Alghero – Sassari, SS)

 

Sulla strada che porta al faro di Capo Caccia (SP 55 S. Maria la Palma – Capo Caccia), appena dopo l’hotel Baia di Conte e le rovine romane, sulla destra c’è l’ingresso per la Foresta Demaniale di Porto Conte – Le Prigionette (Alghero). Di fronte il mare, quella che i romani chiamavano per la sua bellezza la baia delle ninfe: uno spicchio di azzurro quando il cielo è azzurro, una lastra di piombo quando il cielo è plumbeo. Si entra così nel cuore del Parco Regionale, nella zona conosciuta anche come “Arca”, uno scrigno prezioso di colori, profumi e suoni. Il verde delle chiome dei pini e della macchia mediterranea, il blu del cielo e del mare, la luce; i profumi portati dal vento che viene dal mare e che si fondono con quelli delle resine dei pini, con l’aroma acre della macchia e si diffondono ovunque: dagli spazi aperti ai luoghi più impervi e nascosti. I suoni sono il vento, il vento tra gli alberi, il mare nelle burrasche dell’inverno, il grido del falco e del gabbiano, il fruscio delle ali degli stormi di colombi, il raglio degli asini selvatici, un ramo spezzato da un daino che si nasconde nella macchia.

Nell’imponenza e spettacolarità della falesia di Punta Cristallo (326 m. s.l.m.) si legge il lento scorrere imperturbabile del tempo. E’ una terra molto antica, la penisola di Capo Caccia, una terra che nasce dal mare, dai sedimenti di un mare poco profondo e caldo dell’Era Mesozoica. Data la natura carbonatica delle rocce, si manifestano diversi fenomeni carsici sia di superficie che profondi, quali grotte, inghiottitoi e cunicoli che si affacciano sulla scogliera: con l’alternarsi delle maree se ne percepisce la presenza dai misteriosi ed inquietanti suoni dei “soffi”. Le Grotte di Nettuno, massima espressione del fenomeno carsico nella zona, sono visitate ogni anno da migliaia di turisti per la loro estensione e bellezza.

Le onde modellano la falesia, la erodono lentamente. Sulle sue pareti verticali, nelle sue cavità, trovano rifugio e nidificano i colombi selvatici, i rondoni, le berte e l’uccello delle tempeste, il falco pellegrino. Quando il sole inizia a scaldare la terra e si creano le correnti ascensionali, in alto volteggiano gli avvoltoi grifoni per osservare il territorio alla ricerca di cibo. E’ un incontro emozionante, così maestosi e lenti. Purtroppo quì all’Arca la specie è in declino, ciò in conseguenza di una campagna anti “nocivi” condotta in modo illecito alla fine degli anni ’90. Dove il vento salso investe con la sua impetuosità la falesia e, prima di smorzarsi tra i pini, crea vortici e correnti che giocano con il volo degli uccelli, la vegetazione ci appare perfettamente adattata alle condizioni ambientali: piccoli cuscinetti, pulvini, tondeggianti, con colori tendenti a minimizzare l’effetto della radiazione solare, dalle fogli acute, spesso trasformate in spine, per limitare l’evapotraspirazione. All’interno di questi pulvini si mantiene un microclima che permette alla pianta di vivere e riprodursi; se il pulvino viene aperto dal calpestio la pianta muore. L’associazione più importante di questa gariga è rappresentata dal fiordaliso spinoso (Centaurea horrida) con l’astragalo dragante (Astragalus terracianoi), questa caratterizza l’intera area sia dal punto di vista paesaggistico ma più significativamente da quello scientifico. Entrambe endemiche, il fiordaliso spinoso è considerato un paleo endemismo, presente nel mondo solo in Sardegna, nella penisola di Capo Caccia e nelle isole di Asinara e Tavolara, relitto vegetale, testimone dell’era in cui l’Isola era ancora unita al continente.

La falesia, che da Punta Cristallo si continua nel promontorio di Capo Caccia, è separata dal rilievo collinare del Monte Timidone (361 m.) da una piana, Cala Longa, di forma allungata in direzione S – N costituita da depositi alluvionali ed eolici del Pleistocene, evolutisi nel Quaternario in “terre rosse”.

In questa piana, gli algheresi, cui erano assegnati i terreni, coltivavano fino ai primi anni ’60 cereali, così come prima di loro i detenuti della diramazione “Prigionette” (nelle carte “Las Prisonettas”) della colonia penale di Tramariglio, da cui i toponimi delle località. Ancora restano tracce dei loro passi, del loro lavoro: il vigneto, il frutteto, i sentieri che portano ai luoghi di pascolo, alle carbonaie, frammenti del basolato nella strada centrale, resti di indumenti e lenzuola nelle grotte, vecchie fotografie.

Ora la piana è una pineta matura. Al lavoro di detenuti e dei contadini algheresi è subentrato quello degli operai forestali, che ha consentito che di Cala Longa restasse demanio regionale. Gli impianti a conifere hanno interessato l’intera foresta e hanno avuto lo scopo principale di proteggere il suolo, ormai degradato dai ripetuti incendi, dall’erosione e dal dilavamento oltre che favorire, nel primo periodo, la crescita delle essenze arboree della vegetazione autoctona, piantate in consociazione con i pini.

I pini fanno parte ormai del paesaggio ed è cosa “naturale”, nelle zone abbastanza aperte, che il pino d’Aleppo sia con il ginepro, il lentisco, il cisto, le filliree. 

Ovunque la presenza della palma nana, ultimo rappresentante delle palme europee e testimone di una vegetazione subtropicale che copriva l’Isola ancora nell’Era terziaria. In passato dalla palma si produceva il crine vegetale, utilizzato per fare i materassi, e si intrecciavano corde, borse, stuoie e le tradizionali decorazioni della Domenica delle Palme. I suoi datteri sono appetiti dalla volpe, che qui è presente con pochi esemplari e ben rientra nella catena alimentare dell’ecosistema. E’ divertente osservarla prendere il sole sulle rocce nelle fredde giornate in invernali, si ha la sensazione di godere e condividere quei piacevoli pigri momenti di ozio.

Della originaria foresta rimangono lembi residuali alla Marina di Lioneddu, nella costa a nord di Punta Cristallo, per il resto le formazioni di leccio sono molto ridotte e rappresentate prevalentemente da cedui per produzione, in passato, di legna da ardere e di carbone. Più frequentemente si incontrano formazioni a macchia evoluta, ad erica e corbezzolo, tendenti alla ricostituzione della lecceta. Nella macchia così come tra i cespugli della gariga le tracce del daino. Con un po’ di attenzione e di esperienza sulle “fatte” si vedono i passaggi e si riesce a capire anche chi è passato e dove andava: una mamma con il suo piccolo, un giovane maschio, un maschio adulto. Non è raro comunque poterli osservare tra i cespugli bassi e nelle radure. Sul “Monte” lo sguardo si perde. Si perde nel mare, nel cielo, nel profilo sfumato della costa e delle colline in lontananza, nel vento e sembra davvero, come disse qualcuno, di guardare il mondo con gli occhi di Dio, dall’alto. Il Timidone è anche il territorio familiare di “One” uno dei cavallini della Giara, nato da quelli che sono stati portati all’Arca nella prima metà degli anni ’70. Fa una certa impressione vedere il cavallo, animale cui si associano i grandi spazi delle praterie del centro Europa, nella macchia mediterranea, ancora più impressione fa vederlo brucare gli arbusti. Eppure è proprio così. La popolazione dell’Arca si è adattata alle sfavorevoli condizioni ambientali e alla pressoché totale assenza di manto erboso; vengono però parzialmente aiutati con fieno di prato – pascolo e mantenendo attivi alcuni abbeveratoi. A differenza dei cavalli, gli asini selvatici, tra cui gli asinelli bianchi dell’isola Asinara, sono più “rumorosi” e nel periodo degli amori l’Arca diviene un risuonare di ragli, che a volte paiono “disperati” nella loro intensità e partecipazione.

Tutto questo è l’Arca. E anche altro, perché la storia continua…